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IL “RIBILANCIAMENTO STRATEGICO” DI MOSCA

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Le rivelazioni provenienti dalla stampa tedesca, secondo cui Mosca avrebbe ordinato lo schieramento di 24 missili Iskander presso Kaliningrad, città russa (che ha dato i natali al grande filosofo Immanuel Kant) incastonata tra Polonia e Lituania, rappresentano la conferma di un processo già in atto da più di un anno, nonché la consacrazione della Russia quale principale avversario geopolitico degli Stati Uniti. La gittata che gli Iskander sono in grado di coprire permette al Cremlino di tenere sotto tiro Berlino, che si situa a circa 530 km dalla piccola enclave russa. Gli osservatori internazionali che hanno criticato la condotta russa condannandone il carattere intimidatorio si sono guardati bene dal mettere in relazione la decisione di Mosca con l’atteggiamento tenuto dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi decenni.

Fin da quando l’agonizzante Unione Sovietica stava avviandosi verso il collasso, Mikhail Gorbaciov aveva cominciato a rinunciare a una miriade di posizioni pur di strappare a Ronald Reagan la promessa che la NATO non si sarebbe allargata verso est. Inutile ricordare che Washington disattese puntualmente ogni accordo, preoccupandosi di estendere i confini dell’Alleanza Atlantica a ridosso delle frontiere russe. Con il passare degli anni un numero crescente di Paesi appartenenti all’Europa orientale è finito, o attraverso passaggi graduali ben consolidati (associazione all’Unione Europea e successiva adesione alla NATO) o attraverso processi destabilizzanti etero-diretti (le varie “rivoluzioni colorate”), per gravitare nello schieramento occidentale.

Ma la ripresa della Russia sotto la guida di Vladimir Putin ha frenato i piani di estensione dell’Alleanza Atlantica, spingendo gli USA ad adottare una linea operativa maggiormente aggressiva. Così, sotto la presidenza repubblicana di George W. Bush, sorretta dalla fazione dei nocons, Washington elaborò il piano relativo al cosiddetto “scudo antimissile”, un temibile strumento militare spacciato per difensivo nonostante sia in grado di spezzare il delicato equilibrio strategico, dal momento che garantisce, a chi ne dispone, la possibilità di lanciare un attacco (first strike) contro l’avversario senza imbattere in alcun tipo di rappresaglia (second strike). Per questa ragione Putin, nel corso dell’inaugurazione di un terminale petrolifero nei dintorni di Vladivostok del dicembre 2009, ha dichiarato che «La Russia deve sviluppare armi offensive per far fronte allo scudo antimissile americano. E se vogliamo salvaguardare l’equilibrio, dobbiamo stabilire lo scambio di informazioni» (1).

L’avvicendamento tra Bush e Obama, con il corollario di basso profilo e altisonante retorica che generalmente contraddistinguono il modus operandi della fazione democratica, ha inaugurato l’adozione di una tattica meno spregiudicata rispetto a quella preferita dai neocons ma non per questo meno ostile nei confronti di Mosca. La sottoscrizione del trattato Start III nel 2010 da parte di Barack Obama e del presidente russo Dmitrij Medvedev ha suscitato la proliferazione di una pubblicistica inneggiante all’imminente disarmo bilaterale, malgrado tale accordo vincolasse entrambi i Paesi firmatari a limitare solo ed esclusivamente le testate nucleari dispiegate, installate su vettori strategici (ovvero a lunga gittata), senza far cenno alla riduzione di quelle operative mantenute negli arsenali e a quelle dismesse ma non ancora smantellate (e quindi ipoteticamente riutilizzabili). Il criterio fissato per la conta imponeva poi di considerare per singola unità nucleare sia ciascuna testata missilistica sia ciascun bombardiere strategico, laddove i velivoli appartenenti a questa tipologia sono capaci di trasportare oltre 20 testate cadauno. Tale escamotage ha di fatto limitato le responsabilità di entrambe le parti alla riduzione del 10% delle testate nucleari schierate, portandole a 1.550 unità. Il documento non conteneva, inoltre, alcun cenno né alla limitazione della proliferazione, né alla regolamentazione delle modalità di sviluppo qualitativo degli arsenali nucleari, né alla riduzione delle armi tattiche che gli Stati Uniti conservano nei diversi Stati della NATO (tra cui spiccano i nomi di Germania, Italia e Turchia) né, soprattutto, all’abolizione del progetto per il cosiddetto “scudo antimissili”.

A ciò è dovuto lo schieramento dei missili Iskander, fortemente caldeggiato dai vertici delle forze armate russe, le quali interpretano il dispiegamento dello “scudo” come la massima espressione della reale volontà di cui sono titolari i comparti decisionali statunitensi, che mirano a gettare una seria ipoteca sulla determinazione dei futuri rapporti di forza internazionali.
La correttezza di tale interpretazione è ampiamente suffragata dal fatto che gli Stati Uniti hanno predisposto lo schieramento di un numero imprecisato di missili – di cui si riservano il diritto di occultarne, oltre al numero, anche tipologia ed eventuale gittata – a brevissima distanza dai confini russi, in una posizione da cui risulterebbe maggiormente agevole il compito di sorvegliare, attraverso i numerosi sistemi satellitari di cui dispone il Pentagono, le attività di Mosca.

Già nel mese di maggio il governo di Bucarest ha autorizzato Washington ad usufruire del territorio rumeno per dislocarvi missili mobili di tipologia SM-3 e, susseguentemente, il medesimo permesso è stato accordato dalla Polonia, in cui verranno installate numerose batterie di missili Patriot.
Mosca ha agito con prudenza, inoltrando alle autorità statunitensi la richiesta relativa alla stesura di un trattato con la NATO che stabilisse vincoli di natura legale rispetto alle modalità di dispiegamento dello “scudo”e specificasse numero, tipologia e luogo di installazione di missili e radar.

Washington ha opposto un secco rifiuto, incaricando il segretario della NATO Anders Fogh Rasmussen di argomentare tale decisione facendo leva su concetti vacui e intangibili come la “fiducia reciproca” che dovrebbe animare il rapporto tra NATO e Russia allo scopo di archiviare definitivamente il clima “da Guerra Fredda” malauguratamente calato sullo scenario internazionale nel corso degli ultimi anni. Una “fiducia” che Rasmussen esorta Mosca ad accordare nonostante Obama abbia palesemente ignorato le rimostranze del Cremlino inviando nelle acque del Mar Nero l’incrociatore Monterey munito del sofisticato sistema di combattimento Aegis – sviluppato dalla Lockheed Martin, capace di rielaborare i dati captati dai radar incrociandoli con le informazioni contenute all’interno di un vasto database aggiornato di volta in volta – affinché prendesse parte all’esercitazione militare “Sea Breeze 2011″, congiunta con l’Ucraina.

Oltre che nel Mar Nero, l’attività militare della NATO si è concentrata presso le repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania, con le esercitazioni “Open Spirit” del maggio 2012 e “Baltops” e “Saber Strike” del giugno 2012. Al summit della NATO tenutosi a Chicago nel maggio 2012 è stato inoltre annunciato che la «Missione di polizia aerea negli Stati baltici continuerà» (2), ossia che unità aeree a duplice capacità convenzionale e nucleare targate NATO verranno permanentemente dislocate nell’aeroporto militare lituano di Zokniai. Il Mar Baltico viene selezionato per ospitare l’esercitazione “Steadfast Jazz”, volta ad incrementare la capacità dell’Alleanza di «Effettuare più ampie operazioni congiunte di gestione delle crisi» (3). E mentre il ministro degli esteri Sergeij Lavrov condannava l’episodio, chiarendo che «La parte russa ha più volte sottolineato che non lascerà senza attenzione la comparsa nelle immediate vicinanze dei suoi confini degli elementi delle infrastrutture strategiche nordamericane che saranno considerati una minaccia alla sicurezza nazionale» (4), la Casa Bianca otteneva dal governo spagnolo l’assenso per dislocare nella base NATO di Rota, in Andalusia, navi da guerra dotate del medesimo sistema Aegis, destinate a rafforzare la presenza statunitense nel Mediterraneo e nell’Atlantico nord-orientale. A sgombrare ogni dubbio residuo in relazione alle intenzioni statunitensi è poi intervenuto il governo di Anakara, che nell’ottobre 2011 ha firmato un accordo in base al quale Washington otteneva l’autorizzazione per installare di un impianto radar di tracciamento dei missili nel distretto di Kuluncak, nella provincia di Malatya.

Nonostante le reiterate rassicurazioni fornite da Obama e da svariati ministri statunitensi – secondo i quali lo “scudo” servirebbe a fronteggiare una “ipotetica”, futura minaccia nucleare iraniana –, Mosca ha ritenuto che l’aggressivo atteggiamento statunitense fosse rivolto, oltre ogni ragionevole dubbio, contro la Russia.  Qualora la struttura portante di questo poderoso sistema dovesse, in futuro, raggiungere una sufficiente soglia di affidabilità (Rasmussen ha stimato che lo “scudo” dovrebbe divenire pienamente operativo entro il 2018), Washington potrebbe lanciare il fatidico attacco verso una qualsiasi potenza nucleare alla luce dell’invulnerabilità garantita dello “scudo” dalle scontate ritorsioni che il Paese colpito sferrerebbe contro il suolo degli Stati Uniti.

Per questa ragione Mosca ha profuso sforzi considerevoli dai quali e scaturita la messa a punto della micidiale tipologia di missile balistico intercontinentale Topol-M, progettato con lo scopo specifico di perforare le difese dello “scudo”. Tale missile può essere installato su silos (nella versione originale) o su veicoli mantenuti in movimento (nella sua variante) per eludere i rilevamenti satellitari avversari. E’ lungo 21 m, pesante circa 50.000 kg, dotato di propellente solido e capace di coprire una gittata pari a 11.000 km.

Esso è inoltre difficilmente individuabile dai sistemi radar, capace di resistere a qualsiasi tipo di sollecitazione esterna e dotato di una testata che, una volta sganciatasi dagli organi di propulsione, è in grado di raggiungere l’obiettivo dopo aver effettuato brusche alterazioni di traiettoria per sfuggire ad eventuali missili intercettori.

Il che significa che le autorità russe hanno preso atto del carattere eminentemente offensivo e destabilizzante di tale “scudo”, la cui realizzazione non risponde ad alcuna necessità di difendere e rendere più sicura l’Europa, ma a saldare il legame tra Washington e le grandi capitali europee assicurando agli Stati Uniti un incommensurabile vantaggio strategico sui propri avversari.

 

 


1) “Il Sole 24 Ore”, 29 dicembre 2009.

2) “Il Manifesto”, 30 maggio 2012.

3) Ibidem.

4) “Georgia Times”, 11 luglio 2011.

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